Il sentimento della Tristezza

IL SENTIMENTO DELLA TRISTEZZA

 

Prima di parlare di questo sentimento, voglio proporre un ulteriore elemento di conoscenza rispetto al percorso, in entrata e in uscita del segnale che, attraverso i cinque sensi, entra nel nostro corpo, attiva il sentimento e viene messo, poi, in uscita attraverso l’emozione.

Prendiamo in considerazione il concetto di emozionalità e cioè di ciò che vivo, al momento, nelle relazioni interpersonali, e non di emotività.

Quando, per esempio, una parola, un gesto, uno sguardo o qualunque altra forma di stimolo penetrano nel nostro corpo attraverso i cinque organi di senso, vengono assentiti a livello dell’intestino crasso (che definisco area del “1° cervello”, facente parte del sistema nervoso enterico), il quale trasferisce il segnale al cervello in sede cranica, che ha il compito, a sua volta, di metterlo in uscita attraverso l’emozione.

In tutto questo percorso, a seconda del sentimento attivato, vengono prodotti ormoni o altre sostanze che modificano l’equilibrio chimico del nostro corpo, il quale si ricompone attraverso il vivere l’emozione . Il messaggio, dapprima chimico, si trasforma in messaggio elettrico.  Quando il percorso di uscita viene bloccato dalla mente che, in seguito ad una serie di valutazioni, interviene segnalandoci, per esempio, di “non piangere”, l’energia viene bloccata all’interno determinando una serie di alterazioni e di tensioni.       Se questo meccanismo viene ripetuto molte volte, può alterare la vita biologica dell’individuo, fino a determinare vere e proprie patologie soprattutto se gli emettitori del segnale sono i genitori o coloro che hanno legami di sangue.

Se da piccoli non ci sentiamo considerati come individui sessuati (uomo – donna), per esempio quando ci vien detto “non sei come tuo fratello” o “non vali nulla come uomo – o come donna” o ancora “non sei come tuo padre” o “non sei bella come…”,  il sentimento della tristezza si erge a nostra difesa e trasforma tale stato attraverso il pianto, che ne rappresenta l’emozione, ristabilendo l’equilibrio. Il pianto a singhiozzo, che fa muovere il diaframma, è liberatorio, è catartico, soprattutto quando viene accolto e non giudicato. Ci fa sentire più leggeri, ci fa respirare meglio, a pieni polmoni, soprattutto se accompagnato dalle carezze che ci fanno sentire quanto è grande la considerazione che i nostri genitori hanno di noi come individui sessuati, rafforzando la nostra energia sessuale, cioè la nostra identità sessuata, come uomini o come donne, e poi anche come maschi o femmine. L’energia sessuale, che ci accompagna per tutta la vita, viene prodotta fondamentalmente e costantemente dalla considerazione che i genitori hanno di noi, dalle carezze, dalla libertà di piangere e di lamentarci di ciò che non va. Il lamento è un’altra emozione primaria legata a questo sistema energetico.

Ogni volta che la mente interviene e noi non piangiamo, non facciamo altro che bloccare l’attività energetica di tutto un sistema composto dal Polmone, l’Intestino crasso e le ghiandole sessuali, determinando inizialmente tensioni nella parte alta della schiena, tra le scapole, e nella zona sacrale- coccigea, e successivamente secchezza della pelle fino a problemi respiratori veri e propri, per citarne alcuni. La mente a cui mi riferisco è quel complesso di informazioni rivenienti dall’educazione, dall’ambiente sociale, dalla cultura dominante, dalla morale…, che determinano, insieme all’esperienza vissuta, la “forma mentis” di ogni individuo.

A diverse generazioni di uomini è stato insegnato a non piangere, perché il pianto è stato relegato al mondo femminile, non considerando che anche l’uomo ha una sua parte femminile, che spesso non manifesta e per vergogna e per mancanza di consapevolezza. Purtroppo, anche molte donne non piangono più o hanno difficoltà a farlo. Quando si smette di piangere per lungo tempo, può accadere di non riuscire a liberare questa emozione anche quando muore una persona cara e questo può determinare una sofferenza molto profonda che sarà difficile trasformare, se non con l’aiuto di un esperto. Se torniamo indietro di non molte generazioni, intorno agli anni ’50, ritroviamo la figura della prefica, soprattutto in alcune aree del leccese, che veniva chiamata dai familiari a piangere il proprio defunto. Il pianto, in alcuni casi straziante, ha sempre avuto un ruolo catartico, esorcizzante, liberatorio anche perché coinvolgeva i familiari. Questa figura la ritroviamo fin nell’antico Egitto e nell’antica Roma.

Potremmo chiederci perché, dunque, insegnare a controllare le proprie emozioni, se emovono dall’interno e sgorgano spontaneamente. Se ci vien da ridere, possiamo farlo, ma, se ci vien da piangere, no. Questo succede perché abbiamo diviso le emozioni in positive e negative, per cui tutto ciò che la mente giudica positivo si può fare, altrimenti no. Per fortuna, in questo ambito, negli ultimi anni, si leggono scritti di alcuni esperti, pochi, che confermano che le emozioni vanno vissute.

Il corpo non fa nulla contro se stesso, tende ad armonizzare, al contrario della mente che giudica e divide.

Carpe diem

 

Vito ancona